Lo so, il primo articolo del 2016 arriva praticamente l’ultimo giorno del primo mese dell’anno.
Gli impegni personali s’infittiscono e questo mese per me è veramente “caldo” nonostante le temperature.
Per mettere un po’ di ordine e soprattutto per non lasciare scoperte certe ricorrenze ho deciso di condensare il tutto in questo articolo.
Tutte concentrate in questi 31 giorni ci sono una serie di avvenimenti astronautici o legati comunque ad Astronauti…e si, il 20 era anche il compleanno del sottoscritto.
Per la verità anche Buzz Aldrin compie gli anni il 20 gennaio, ben 45 anni prima di me. 86, portati egregiamente, direi.
Per la NASA però, gennaio è un mese nefasto, decisamente nefasto.
E’ in questo mese infatti che si registrano i due incidenti più tragici della storia astronautica americana.
L’incendio di Apollo 1 e la conseguente morte dei tre astronauti Virgil “Gas” Grissom, Ed White e Roger Chaffie.
Il 27 gennaio del 1967 l’avvio dei test sulla prima capsula Apollo che avrebbe ospitato tra astronauti si rivelò fatale.
Dopo una serie di avvisaglie, incautamente ignorate dai tecnici e il conseguente ritardo sulla tabella di marcia, i test stavano per riprendere e alle 18,31. Fu letto un aumento di pressione nelle tute degli astronauti e qualche istante dopo si udirono le grida prima di Chaffee che esclamò di sentir odore di fuoco. La conferma che la capsula stava diventando una trappola mortale per i tre uomini arrivò pochissimi secondi dopo, quando White urlò “Fuoco, fuoco in cabina”.
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In meno di 20 secondi l’equipaggio di Apollo 1 fu inghiottito dal denso fumo nero, che li uccise per asfissia.
Una volta rimosse le spoglie degli astronauti, la NASA mise i sigilli a tutto il complesso 34 e fece in modo che tutto ciò che si trovava nell’area circoscritta venisse dettagliatamente analizzata. Webb, l’Amministratore della NASA di allora, istituì una commissione d’inchiesta per far luce su quanto accaduto. Gli ingegneri smontarono per per pezzo la navicella e scoprirono che l’incendio era divampato vicino al sedile di Grissom. L’atmosfera ricca di ossigeno e l’alta pressione all’interno della cabina avevano trasformato la capsula in una vera polveriera. Il programma Apollo era veramente partito male, con il primo disastro astronautico, per giunta in un collaudo statico a terra.
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Diversa invece la sequenza degli eventi, ma ugualmente fatale, per l’equipaggio dello Shuttle Challenger.
Il 28 gennaio del 1986, a soli 73 secondi dal lancio l’intero complesso Orbiter+SRB+EXTERNAL TANK, si trasformò in una nube incandescente di ossigeno e idrogeno. Le immagini di quell’esplosione sono ancora vivide nella mia memoria e credo in quella di tutti coloro che assistettero alle trasmissioni televisive dei notiziari.
Non si trattò però di un’esplosione vera e propria. In breve, una guarnizione in gomma (O-ring) del booster di destra, chiamato SRB, perdendo le sue caratteristiche elastiche per l’estremo freddo a cui era stata sottoposta da giorni, cedette e permise l’apertura di una falla che scatenò una serie di rapidi eventi in successione.
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Il computer di assetto dello shuttle si trovò a gestire sollecitazioni tremende e un fortissimo vento relativo laterale. Il serbatoio esterno, già compromesso dalle fiamme e dall’apertura di falle sulla sua incamiciatura si ruppe. Gli SRB si staccarono dal resto della struttura e l’orbiter si venne a trovare in una posizione aereodinamicamente insopportabile. Le forze esercitate sulla navetta furono così tremende da disintegrare ogni cosa.
Gli SRB vennero fatti esplodere a distanza per motivi di sicurezza.
Dai dati raccolti risultò che l’equipaggio, al momento dell’impatto con l’acqua, arrivò vivo, ma incosciente.
A bordo, come molti ricorderanno, c’era anche Christa McAuliffe, la prima maestrina astronauta nell’ambito di un programma che prevedeva appunto di portare nello spazio un insegnante. Insieme a lei persero la vita altri 6 astronauti:
(in basso): Michael John Smith, Dick Scobee e Ronald McNair (seconda fila da sinistra a destra): Ellison Onizuka, Christa McAuliffe, Gregory Jarvis e Judith Resnik.
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La tragedia gettò la NASA nel caos più totale. Il veterano dello spazio, nonché uno dei 12 moonwalker, John Young (Apollo 16), fece parte della commissione d’inchiesta chiamata ad indagare sull’incidente. Fu uno degli attori più critici e determinanti per lo svolgimento dell’inchiesta e del conseguente riorganizzamento della NASA, che solo due anni dopo poté tornare a lanciare astronauti a bordo di navette Shuttle.
L’ultimo giorno di gennaio, per fortuna, è ricordato come un giorno di riscatto e di successo e, possiamo dirlo, di gloria.
Dopo il fallimento di Apollo 13 infatti la NASA stava rischiando la cancellazione del programma Apollo.
La missione denominata 14 non poteva mancare il bersaglio o sarebbe stata la fine dell’esplorazione lunare voluta da Kennedy.
Fu scelto per questo gravoso incarico il primo americano nello spazio “Al” Shepard, che era stato appunto il primo essere umano a viaggiare dentro una capsula Mercury per appena 15 minuti. Shepard, rientrò nel gruppo di astronauti dopo circa una decina di anni di assenza forzata, dovuta ad una particolare patologia dell’orecchio (sindrome di Meniere).
Al fianco di Alan Shepard trovarono posto Edgar Mitchell e Stuart Roosa
Il decollo del Saturno V avvenne alle ore 21:03 UTC del 31 gennaio 1971 dalla rampa 39 A del Kennedy Space Center
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La missione filò abbastanza liscia fino al momento del primo docking, nella manovra di aggancio ed estrazione tra modulo di comando e modulo lunare. Furono necessari ben 6 tentativi prima che il LM potesse essere agganciato ed estratto dallo stadio S-IVB.
Vi furono altri problemi, alcuni dei quali abbastanza importanti.
Il mese di gennaio si conclude dunque con questo mio primo post del 2016…e la promessa che nei prossimi giorni vi racconterò altri particolari sui problemi avuti dall’amico Mitchell e compagni.
Colgo l’occasione per mandare un grande augurio di pronta guarigione allo stesso Ed Mitchell, che i lettori di Octobersky hanno imparato a conoscere.